Il primo Falstaff non si scorda mai

Annabaldo

Non avevo mai visto un Falstaff di Verdi. Ora che ho ammesso la mia ignoranza, rincaro la dose e confesso che, in attesa della prima dell’opera al Teatro Olimpico di Vicenza, venerdì scorso, ho deciso che non mi sarei informata di nulla, né musica né libretto, e nemmeno trama per sommi capi. “Per vedere da vicino l’effetto che fa”, si potrebbe canticchiare.
Il più delle volte mi trovo ad assistere a spettacoli di cui ho scritto in anteprima, conosco gli interpreti, ho persino seguito la preparazione. Ha tutto un altro sapore, un che di privilegio che mi coinvolge in modo speciale. Stavolta ho voluto lasciarmi impressionare dalla confezione finale, perfetta, inattesa.

Il Teatro Olimpico regala un’esperienza davvero difficile da imitare: lo spettatore non resta mai così “altro” rispetto ciò che accade sul palco, perché il teatro stesso è una gigante cassa armonica in legno, e chi siede sui gradoni sta di fatto dentro la stessa “pancia” dove si crea il suono, assieme ai musicisti. Questa cosa straordinaria, nella messa in scena di Iván Fischer e Marco Gandini è stata portata all’estremo, stravolgendo la posizione stessa dell’orchestra e del direttore. Forse a riprodurre l’antico Globe Theatre, l’orchestra era disposta ad ogiva, con archi sul palco mentre fiati e percussioni stavano in buca. Il direttore nel centro, sempre girando le spalle a qualcuno, una passerella che tagliava in diagonale la scena, creando una totale commistione di ruoli. Commistione che nel terzo atto spinge gli orchestrali a diventare coro, ballerini, e persino parti della scenografia, indossando copricapo con lucine a mimare il bosco di notte, nell’atmosfera di fiaba.

Nel gioco di innocui inganni, in cui le donne si fanno burla degli uomini, con leggiadria, portandoli a girare su se stessi fino a confondersi del tutto, anche il direttore gioca, si cela, si gira, entra in scena, è complice dei personaggi e si prende pure una mezza ramanzina da una cantante. Lo spirito ironico, il “wit” delle allegre comari, pervade non solo l’opera, ma anche la sua messa in scena, e richiede agli interpreti di appropriarsi di quello spirito arguto che fa sorridere, certo, ma anche riflettere.

E poi entra in scena la musica, a braccetto con la poesia del libretto. Una strana sensazione mi ha preso, quasi di orgoglio, come se il caso che mi ha fatto nascere in Italia avesse richiesto un qualche merito da parte mia. Di puro caso si tratta, ed è quello che mi permette di condividere la lingua di Boito, apprezzandone le sfumature come i miei vicini di posto – inequivocabilmente nordeuropei – non possono fare, e di trovare familiari le armonie delle parti orchestrali e del canto. Eppure davvero, nell’enfasi di alcuni momenti orchestrali, ho pensato “senti che bella l’Italia”, quasi pavoneggiandomi con un immaginario interlocutore straniero, in un volo pindarico che la razionalità avrebbe fatto precipitare in un vergognoso epilogo: cosa hai tu da spartire con questi grandissimi? Non ho che da essere grata, e degna, di tanta fortuna, perché penso che veramente in pochi potrebbero godersi quest’opera come me la sono goduta io.

Gustosissima la messa in scena, che ha regalato al pubblico personaggi ritagliati sugli interpreti con una creatività visionaria. Falstaff (poi ho letto che si trattava di uno dei più grandi interpreti di questo ruolo) pareva pensato per il cantante visto in scena, e non il contrario. Se Verdi l’avesse conosciuto, non avrebbe potuto dipingerlo più uguale di così. In contrasto il quartetto di donne, garbate e leggiadre, ma al tempo stesso pittoresche: una sorta di coppia Adelina-Guendalina, per altro anch’esse aristocratiche, moltiplicato per due, con caratterizzazioni centratissime e sempre in equilibrio sul filo dell’ironia, senza mai cadere nella macchietta.

Ancora una volta, Marco Gandini chiede molto, scenicamente, agli interpreti, e il gioco di inganni e nascondigli si presta alle soluzioni gustosissime viste sul palco. I costumi incantano, letteralmente, in un crescendo che trionfa nei travestimenti fiabeschi del finale, con elfi, folletti e fatine luminose come lucciole … di mezza estate. Tra il pubblico, una bambina forse di sette anni, come rivelava il suo sorriso sconnesso di alti e bassi: sono felice che le sia toccato in sorte di assistere a questa fiaba straordinariamente ricca d’arte, che ha riempito gli occhi e il cuore di tutti gli spettatori. Per un poco ho condiviso lo stesso stupore con la piccola, in una vacanza dello spirito che è stata un vero regalo.

Lo spettacolo: Vicenza Opera Festival, organizzato dalla Società del Quartetto e dalla Budapest Festival Orchestra di Iván Fischer.