Il Direttore d’orchestra e il management

Annabaldo

Chi soffre di pensiero laterale finisce sempre per fare associazioni quanto meno indirette. Per trovare un interessante esempio di manager, o anche di capi nel senso vecchio del termine che alcuni dicono parón, non va in cerca del vecchio imprenditore illuminato, o della seconda generazione di imprenditori, che possono essere stati illuminati contro loro voglia, o a loro insaputa (i più à la page) o a forza, ma in tutti e tre i casi senza risultati. Trova esempi di quella che, con brutto tecnicismo, si chiama “gestione dei collaboratori”, in un’orchestra.

Intanto, in barba alle raccomandazioni di quelli che sanno scrivere, e che implorano moderazione nell’uso delle virgolette, le stesse che gli anglosassoni mimano con faccina tonta e con le due dita di ciascuna mano, stavolta parlando di collaboratori di virgolette ce ne vogliono tante, ditini compresi. Perché è inutile appellare una persona con un termine che implica comune intento, spirito di corpo, dedizione e fiducia reciproche, se poi li tratti in modo unidirezionale, senza lasciare diritto di replica, calando dall’alto minacce nemmeno troppo velate sulla loro sopravvivenza (professionale, ça va sans dire, ma solo per un accidente temporale, che se fossimo qualche secolo fa, il concetto si potrebbe estendere).

Collaboratore is the new servo.

Meglio sarebbe servo muto, quello che serve ad appendere la giacca. “Non fare l’errore di nuovo, se no non ci metto un minuto …”,”Io sono il boss, se non ci stai, sei fuori”, ”Chi ti credi di essere, tu non puoi …”, “Io non sono tenuto a dirti/a farti sapere, tu devi solo fare quello che ti dico io” e altre amenità: mi è capitato di sentirle dire, in diverse situazioni, ma a metterle tutte insieme viene fuori una scena che finisce con i croissant per quelli che hanno fame.

Dunque, che c’entra il direttore d’orchestra? Non tutti suonano in un’orchestra, o non hanno assistito alle prove di un concerto. Le prime, intendo, quelle in cui le intenzioni reciproche, tra direttore e singoli musicisti, ancora non sono chiare. Il direttore è in una posizione chiarissima: superiore a tutti, unico e indiscusso (persino l’imprenditore più veteroparón lo può sanamente invidiare, perché non ci arriverà mai, in quella posizione). In più, spesso l’hanno invitato, non è lui che chiama l’orchestra ma il contrario, quindi è trattato pure con la deferenza dell’ospite d’onore.

E cosa fa? Usa termini e scorciatoie del tipo elencato sopra? No (anche se a volte forse vorrebbe tanto, immagino).

Il direttore, per fare bella figura, deve ottenere il massimo da ciascuno dei suoi orchestrali.

Devono, tacitamente, sentendosi alla pari nella costruzione sonora dell’opera, ciascuno nel proprio ruolo, siglare un accordo in cui ognuno dei due accetta di cedere una quota di sovranità e venire incontro all’altro, comprendere perché fa certe cose (anche quelle poco gradite), le modalità che ha e le ragioni che lo muovono. Ciascuno accetta e deve sentirsi accettato dall’altro. Melenso? Funzionale, direi. Non è amore (termine tra i più fraintesi al mondo, per altro), è che o così, o risultato zoppo. Le prove di forza debilitano entrambi. Il momento di tensione si stempera nel tempo, con un caffè e con una risata sincera. Sincera, non di facciata.

Certo, possono esserci orchestrali divi che si alzano e lasciano il posto (chapeau. È uno dei regali che mi riservo in un’altra dimensione, onirico – hollywoodiana), o direttori sanguigni che prendono a bacchettate in testa i musicisti, ma per poterselo permettere devono supplire con molto di più, su altri fronti.
Un’orchestra di sciacquette tutte “sì, Maestro, io non sono nulla, più mi azzero io più tu sei figo” non so se esiste, ma nella mia fantasia suona maluccio.

Il direttore affascina, trascina, convince.

Non per diritto di ruolo, perché ieri qualcuno lo ha messo sul podio, e voi state zitti e portate rispetto, ma perché gli vengono riconosciute, non senza esame, le qualità apprezzate dal gruppo che deve guidare.

Che è felice di guidare. Anche quando fa finta di esserlo, felice. O forse lo diventa, felice, nel percorso che termina con il concerto. In ogni caso, avrà ottenuto il massimo possibile. Non l’ottimo, ma il meglio. Una cosa imperdonata è il bluff. E ammettere incompetenza a parole non vale, se poi la si colma con la prepotenza data da un ruolo che resta una scatola vuota. Contro un personaggio così, il gruppo si coalizza, fa fronte, e il capo … è mozzato, non ha davvero scampo.

Come si comincia con la musica, il vissuto personale (comprese le antipatie o gli attriti con chi ti sta di fronte, o quello che ti eri portato da casa), passa in secondo piano, fino a dissolversi nell’aria. Quando si lavora così, immersi “nel flusso” è inevitabile che lo si faccia bene, e che si torni a casa migliori di come si è arrivati.

Ringrazio i direttori d’orchestra e di coro che conosco, quelli che ho visto lavorare in prova, quelli con cui ho avuto modo di cantare, quelli che mi hanno raccontato di prove dove io non c’ero, e idem per musicisti che in orchestra lavorano e vivono. Tutti loro potranno commentare, spero non con cattiveria, e dire come stanno davvero le cose, al di là delle mie fantasie.