Qual è il tuo nome? Io mi chiamo Clitennestra

Annabaldo

Sono ancora un po’ stordita, dopo la serata di ieri passata a teatro. Era davvero tanto che non partecipavo ad una performance. Sì, partecipavo: il primo motivo di leggero capogiro è proprio questo. Mi aspettavo di andare in Olimpico, e la cosa mi interessava perché, dopo averlo “assaggiato” con il caldo (anche tanto, ma tanto caldo), ero curiosa di vedere come se la passa il vecchio con il freddo. L’esperienza sarebbe stata un modo per condividere il teatro con i miei antichi predecessori vicentini, quelli che non avevano il riscaldamento neanche a casa, se non un focolare, i più abbienti. Vissuto che non mi appartiene, schivato solo di pochi decenni (molti di quelli che frequento oggi hanno memorie di “monega” e tutto il resto, ma io no, sono figlia di una generazione cittadina, con i termosifoni ovunque).

Invece, non so perché ma niente Olimpico. Lo spettacolo si fa al Comunale. “Più pratico e più prosaico”, ho pensato subito. Un classico, ma riletto in un testo originale, reso a monologo. Anche questa, soluzione pratica, visti i tempi, e va bene così. Ogni volta il teatro è un esperimento, un’esperienza (stessa radice, significati che si completano).
Purtroppo avevo sbirciato una recensione. Dico “purtroppo” perché alcuni dettagli mi erano stati svelati (spoilerati, se non si odiasse il neologismo per nulla eufonico). Che Anna (Zago, ndr) fosse intensa, un mix potente di energia, forza impetuosa, musicalità, fisicità e lirismo, lo sapevo da tempo. Ma io a teatro non vado per giudicare. Vado per vivere. Per scivolare inavvertitamente dalla comprensione al sentire, dalla consapevolezza di vivere attraverso il personaggio ad un immedesimarsi in cui perdo il confine tra ciò che avviene sul palco e la mia essenza, quella che non riesco ad ammettere nemmeno a me stessa, figuriamoci agli altri.

Avevo letto di un urlo animale, e mi chiedevo come sarebbe stato reso dalla scena. Invece l’urlo arriva in faccia. Viscerale, amaro. Uno schiaffo all’anima. Il palco non c’era. Io e altri forse cinquanta stavamo attorno ad un ring: un quadrato dove il pugile era uno solo (l’interprete o ciascuno di noi?): la bestia che si agitava tra i suoi frammenti di realtà, ragioni e sentimenti che si stagliavano come colori stridenti, lanciati con veemenza su una tela inospitale, ma anche pugni – ora in faccia ora allo stomaco, e pure qualcuno basso, scorretto.

La domanda “Chi è Clitennestra”, a cui il personaggio cercava di rispondere chiamandosi per nome, andava oltre la narrazione e diventava “Chi sei tu?”. Chi sono io? Sono tutte le Clitennestre che hanno preso voce e corpo ieri sera. Lo so, è un’esagerazione; la mia vita è senza dubbio meno estrema, atroce, dolorosa, coraggiosa e pure (in)gloriosa di quella del personaggio epico (non ho perso il contatto con la realtà, e la banalità della mia esistenza mi pare addirittura preziosa). Ma il semi-buio (avrei preferito che fosse totale, per sentirmi sola di fronte al fantasma) autorizza ad essere sinceri, liberi. Almeno interiormente. Nel semi-buio Anna ti guarda con forza negli occhi. Uno sguardo difficile da reggere. Ho cercato di farlo per non fare mancare a lei la risposta, ma l’ho trovato di una difficoltà estrema.

Al di là dei brividi, della pelle d’oca che provocano l’orrore o il sublime, per più volte mi sono posta di fronte a me stessa, mi sono concessa di lasciar emergere anche in me le mille donne che Clitennestra incarna, di ammetterne la presenza. Ho pensato che tutte siamo figlie ingannate, madri-belve, amanti tradite e rabbiose. La catarsi si spegne bruscamente, dall’esaltazione si cade di botto alla bieca realtà che ti fa dire “meno male”, i tradimenti e i dolori reali non saranno mai così laceranti. Vuoi vedere che anche a questo serve il teatro, regalandoti appagamento e dignità al tempo stesso, perché di fuori nessuno sa cosa ti passa per l’anima durante la recita. Me ne esco con la stessa faccia di quando sono entrata, salvaguardando l’accettabilità sociale, tornando a zampettare sui tacchi verso il parcheggio. Dietro la mascherina chirurgica non appare la vergogna di essermi paragonata a lei, a tratti, e non appare neanche la pochezza di una vita “normale”, qualunque cosa possa significare.

NOTE
Lo spettacolo è “Clitennestra. I morsi della rabbia” di e con Anna Zago, una nuova produzione Theama Teatro, realizzata con la consulenza artistica e regia di Piergiorgio Piccoli. Prima nazionale per il 73° Ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico di Vicenza. 20 ottobre 2020.

La foto è di Alice Mattiolo, gentilmente concessa da Theama Teatro