Quando il copy non c’è / non serve

Annabaldo

Vorrei rassicurare tutti quelli che scrivono per mestiere, o per avventura (che poi è diventata un mestiere, quello del copy). Meglio ancora se questi personaggi hanno iniziato prima che qualcuno se ne uscisse con SEO copywriting, che è davvero come la sabbia…vabbè, ci siamo capiti. Anche perché così trovo finalmente il modo di usare i tre puntini di sospensione in modo opportuno.

Dunque, dicevo, vorrei rassicurare sul fatto che si vede, quando i testi restano i “figli della serva” (così si dice a casa mia); poco o tanto, la differenza c’è, e credo fermamente che più di qualcuno se ne accorga.
L’osservatorio ci viene incontro di continuo, anche o soprattutto in modo non richiesto.

Va contro mano guardando dall’altra parte
e regolarmente ci investe con frontali
che non lasciano il tempo di replicare.

Ora, dato che lamentarsi non solo non serve ed è pure dannoso per la salute, non ci resta che piangere, dal ridere. Scopriremo cosa significa avere l’atteggiamento mentale che ci consente di trovare le molte piccole gioie che costellano le nostre giornate. A volte, se siamo fortunati, non serve neanche cercare tanto, perché le perle arrivano già infilate, tutte nella stessa brochure. Diversamente, con pazienza si potrà allungare l’elenco che mi sono appuntata qui, e che vi invito a continuare liberamente.

Come chiameremo costui/costei che si trova a mettere parole di fianco ad immagini, possibilmente che non dicano troppo (pare brutto) e nel minor tempo possibile, al massimo calcolando l’ingombro delle lettere? Nelle nostre aziende credo si chiami “la tosa”.
Per i non veneti: significa “la ragazza”, perché spesso lo è: una stagista, una segretaria, una “neoassunta e poi vedremo”, che tra mille cose si troverà ultima con il cerino in mano, che tutti gli altri si sono defilati e i testi li deve mettere lei, entro cinque minuti, con il solo incoraggiamento che “tanto poi non li legge nessuno”.

Dunque, che fa la nostra Tosa? Mi è venuto un elenco di 7, numero sacro, dai doni dello Spirito Santo ai nani di Biancaneve.

  1. Scrive come parla. E parla molto male (direbbe Brunori sas), a giudicare dal risultato. In alternativa, forse nella non ancora perfettamente a fuoco consapevolezza che scrivere e parlare sono due cose diverse, scriverà in modo artefatto, arzigogolato e scolastico, maledicendo quella volta che credeva che la stagione dei temini obbligati sarebbe finita con le scuole dell’obbligo. E invece no.
  1. Mixa italiano e inglese a casaccio, perché fa molto business writing o, più semplicemente, fa figo, suona cool, tutti ce l’hanno, nessuno capisce e piace all’art director (sarebbe semplicemente il grafico, ma viene eletto ai massimi onori dalla sera alla mattina).
  1. Per finire, butta lì un po’ di punteggiatura, come si fa con sale e pepe, cercando di simulare l’andamento del parlato. Preferibilmente contravvenendo alle più elementari regole di decenza grammaticale, tipo interrompere soggetto e verbo, che starebbero tanto bene insieme, ma niente, non si può.
  1. I testi sono pieni di “slogan” (si dice ancora? Io lo dico). Dei pay off, in quantità e varietà che meriterebbero un catalogo tutto per sé. Con risultato carnascialesco.
  1. Siccome nella scrittura non si butta via niente (questo non si diceva di qualcos’altro?), alcuni pezzi di testo finiscono a fare da didascalia a foto enormi, generiche e poco coerenti ma molto decorative. Se uno volesse mai capire quello che c’è scritto, dovrebbe leggere le dida di seguito con gli altri pezzi di testo. E senza neanche aver avuto le istruzioni per l’uso.
  1. Per dare enfasi al testo scrive in maiuscolo, così, all’improvviso. In MAIUSCOLO, che ti viene un colpo.
  1. I puntini sono tanti, milioni di milioni. Quasi mai tre, guarda caso. Arrivano prima e anche dopo qualcosa che si dice e non si dice.
    Siamo ad un passo dalle faccine, e qui, stremata, termino.